Nel dicembre del 1969, organizzato dal Club Cento Barbe (segretario-animatore
Giuseppe Raffele) si svolse a Treviso un concorso di poesia in
dialetto, dedicato al radicchio rosso e riservato ai poeti delle Tre
Venezie e dell'Istria. S'impose su una rosa di quarantaquattro
concorrenti — “esaminati” da una giuria di tutto rispetto composta fra
gli altri dal romanziere Enzo Demattè e dal poeta e giornalista Gino
Tomaselli (Cafè Nero) — il trevigiano Alberto Albanese Jr., all'epoca poco più che
trentenne.
Ricorda
Albanese: «Era anche la prima volta che componevo una poesia in versi
liberi, e quando ci fu la premiazione nel salone della Cassa di
Risparmio in piazza San Leonardo, ero talmente emozionato che non me la
sentii di recitarla. La lesse al mio posto un altro poeta, Marcello
Cocchetto».
Un fià de la me tera [Guarda il video]
Lontan da la me tera,
tra tanta zente
che no' gera la me zente,
solo,
co' 'l cuor desfà,
me consolavo
vardando le vetrine
iluminae.
Aria de Nadal,
festa par tuti,
ma no' par mi
lontan da la me casa,
lontan da la me tera.
Caminavo fiaco
in mezo a quela zente
indafarada e contenta
quando che l'ocio
el s'ha fermà de boto:
in te 'na vetrineta,
ben in mostra,
ghe gera un bel çestel
de radici rosso fogo.
Me son fermà… li go vardai…
no' me pareva vero.
Radici trevisani?…
Se me ga verto 'l cuor,
l'emossion la gera granda…
Sonava le campane,
gera Nadal, festa par tuti
e festa anca par mi
che più no' me sentivo
perso pa' 'l mondo.
Me tegneva compagnia
me confortava 'l cuor,
me dava contentessa
aver nel me disnar
un bel piatel
de radici trevisani:
un fià de la me tera.
Era da tempo che desideravo conoscere l'autore di Un fià de la me tera (1),
perché mi riconoscevo nella sua condizione di uomo qualunque, che non
si trovava di certo a spasso per il mondo come turista. Mi colpiva
quell'uomo solo, che passeggiava in una città lontana, triste “tra tanta
gente che non era la sua gente” e che all'improvviso scorgeva qualcosa
che gli ricordava la sua terra. E mi piaceva pensare che magari quel piccolo «çestel de radici rosso fogo» provenisse
proprio dalla nostra stalla dove negli anni '60 trascorrevo ancora – un
po' per dovere, molto per intimo bisogno di sentirmi parte di una
famiglia contadina tradizionale ormai in estinzione – lunghe ore nelle
sere d'inverno a curar raici. Ore che all'avvicinarsi del Natale
si inoltravano sempre più nella notte. Perché quella era la stagione
migliore per la vendita del radicchio e bisognava darci dentro, e perché
in agguato c'era sempre il ghiaccio che minacciava di chiudere il campo
nella sua morsa.
I
soldi che si guadagnavano erano sempre scarsi; poche erano le volte che
mio padre o i miei fratelli tornavano a casa soddisfatti dalla piassa, il mercato.
Eppure, mi dicevo, tutti li richiedono questi radicchi; chissà che giri faranno …
L'incontro con Albanese avviene in un mezzogiorno di fine luglio del 2008.
Seduti
su una panchina nell'area verde del quartiere popolare in cui abita
(San Paolo, Treviso) i minuti scorrono veloci e piacevoli, con il poeta
che di tanto in tanto, mentre mi parla della sua vita, controlla
l'orologio perché teme di non far in tempo a comprare il pane.
Alberto Albanese è un uomo di esile struttura, dall'eloquio pacato e dai modi che rispecchiano un'innata gentilezza.
Mi racconta dell'emigrazione.
All’epoca dell'episodio rievocato in Un fià de la me tera, Albanese lavorava da sei anni a Neuchâtel, in Svizzera. Aveva iniziato nel 1956 come muratore.
«Però
non avevo il fisico per quel mestiere. Ho resistito un paio di mesi e
poi sono tornato a casa. Ho dovuto aspettare a Treviso che
trascorressero i tre mesi necessari per rifare le carte e poi sono
ritornato a Neuchâtel, appoggiandomi sempre all'abitazione di mia
sorella Luigia, che già da tempo abitava in Svizzera col marito;
entrambi operai. Questa volta trovai lavoro come fattorino, attività che
conservai per tutti i sei anni di emigrazione. In pratica facevo
consegne a domicilio, dapprima in bicicletta e poi in motorino, per la
ditta Bell, una grossa macelleria-salumeria con sette succursali sparse
per la città».
Un
pomeriggio di dicembre del 1962, passeggiando per il centro, Alberto
scorse del radicchio trevigiano esposto in un negozietto di frutta e
verdura. La cosa da una parte gli toccò le corde profonde dell'orgoglio:
“Guarda un po’, dove mi capita di vedere il nostro radicchio…”,
dall'altra lo indispettì, perché il fiore di Treviso era indicato come “Salade de Venise”.
Allora,
«mi son fatto coraggio», racconta. «Sono entrato nel negozio e
indicando il radicchio al proprietario gli ho detto: “Guardi che quanto è
scritto nel cartello non è giusto, perché quello è Radicchio di
Treviso, non Salade de Venise”. E siccome un po' anche ci
conoscevamo, il negoziante mi ha ascoltato. Difatti, il giorno dopo ha
messo fuori il cartello con scritto sempre Salade de Venise ma con aggiunto in bella evidenza Radicchio di Treviso».
Ma
ormai la vita dell'emigrante diventava sempre più difficile
da sopportare, «anche se non posso certo dir male della ditta che mi ha
dato lavoro. Solo che era un anno iniziato per il verso sbagliato. Mi
ero lasciato con la morosa e, non bastasse, aveva anche iniziato a
nevicare già da ottobre. Insomma, non vedevo l'ora di tornare a casa».
Infatti
poco dopo l'episodio del radicchio Albanese ritornò a Treviso, dove
lavorò per trent'anni in due fabbriche di ceramica: cinque anni nel
reparto decorazione da Tognana e venticinque come magazziniere da
Pagnossin.
«Assunto con mansioni da impiegato?», gli chiedo.
«No, no, come operaio», puntualizza, a conferma di una modestia che non fa sconti.
Ora
è in pensione e ha più tempo da dedicare a quella poesia che è parte
intrinseca della sua esistenza, e di cui parla con naturalezza, senza
enfasi; orgoglioso di essere tornato a far parte della redazione de El Sil (2) e soprattutto fiero della sua creatura: il Premio letterario San Paolo, fondato nel 1977 «per portare un po' di cultura anche in questo quartiere».
Adesso, per la verità, ha un po' ridotto il suo impegno per il Premio. Non per dissapori od altro, ma perché «l'hanno preso in mano i giovani, ed è giusto che vadano avanti loro».
Atteggiamento questo che aggiunge un'altra nota d'onore alle molte finora già meritate dal nostro valente poeta.
Nota bio-bibliografica
Alberto Albanese Jr. è nato il 12 agosto 1936 a Treviso nel quartiere di San Nicolò (3) quinto
dei nove figli di Alberto Albanese Sr. (1903-1975), anch'egli noto
poeta. È quindi figlio d'arte, e come lui si sono cimentati con la
poesia quasi tutti i fratelli e le sorelle: Carlo, (poeta, ma anche
autore di un romanzo e di una storia del gioco dei birilli), Lidia (morta a 16 anni), Bertilla, Mario (il fotografo).
Alberto ha iniziato a pubblicare le sue prime poesie in giovane età su Il Vittorioso, in italiano, continuando poi, durante l'emigrazione, sul Corriere degli Italiani, giornale degli italiani in Svizzera. Ha partecipato fin dalla fondazione (1971) all'attività poetica del periodico El Sil e ha edito, sia pure in poche copie autoprodotte, due opere: Un altro dì de la me vita, 1997, in dialetto e Poesie [1999], in italiano.
Sposato con Elide, ha due figli, Fabio (1969) e Laura (1972).
Camillo Pavan
(Agosto 2008)
Note
1 – Negli anni 70-80 Un fià de la me tera ebbe
una circolazione limitata ai cultori della poesia in vernacolo
trevigiano. Nel 1984 fu riportata in terza di copertina
dal tecnico dell'Ispettorato Agrario di Treviso Giovanni Marchiori nel
suo opuscolo dedicato al radicchio.
Con un certo orgoglio posso dire che dopo la sua pubblicazione su Raici,
e ancor più dopo la sua messa in rete (a partire dal 2000) dapprima nel mio sito poi nel blog e su YouTube, questo classico della poesia in lingua veneta ha raggiunto un
pubblico molto più vasto.
Prima di allora, associata al radicchio c'era solo la celebre strofetta del poeta trevigiano Giovanni Rizzi (1828-1889) che Giuseppe Benzi sentì recitare a Milano nel 1876 (cfr. Raici, p. 196):
«Se lo guardi egli è un sorriso, / Se lo mangi è un paradiso / ... il radicchio di Treviso».
Via Giovanni Rizzi, poeta, 1828-1889 (Treviso, San Zeno) |
Prima di allora, associata al radicchio c'era solo la celebre strofetta del poeta trevigiano Giovanni Rizzi (1828-1889) che Giuseppe Benzi sentì recitare a Milano nel 1876 (cfr. Raici, p. 196):
«Se lo guardi egli è un sorriso, / Se lo mangi è un paradiso / ... il radicchio di Treviso».
2 – «Periodico del circolo “Amissi de la poesia”, Treviso, fondà nel 1971 da A. Albanese Sr. e da A. Cason», come recita la testata.
3 –
Quartiere popolare e sottoproletario di Treviso, visto da sempre come
un problema per i benpensanti della città. Subì pesanti distruzioni a
causa dei bombardamenti dell'ultima guerra e venne definitivamente
“bonificato” a metà degli anni '50. I suoi abitanti furono trasferiti in
periferia, alla Fiera o in Borgo Mestre; alcuni in aperta campagna, a
Borgo Capriolo - Santa Bona. (Cfr. Bepi Stocco, Gente delle calli, a c. di Livio Fantina, Cierre, 2000, p. 247).
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