Leggende...
«Ma non vede il nostro campanile? Ha la punta a forma di mastello e tutt'attorno c'è una cornice. È lì sopra che una volta, ai tempi ancora del Medioevo, gli uccelli hanno lasciato cadere dei semi. Così nacque il radicchio e i nostri contadini po' alla volta, hanno imparato a coltivarlo e a migliorarlo. L'ho sempre sentito dire dai miei vecchi».
Alle sei del mattino di una vigilia di Natale, mentre è in attesa di compratori sotto la pensilina del mercato ortofrutticolo di Treviso, Armando Pillon, di Dosson, figlio di figli di coltivatori di radicchio rosso, non ha dubbi nel raccontare la vera origine di questo prelibato ortaggio (1).
Non ha dubbi neppure don Giuseppe De Pieri secondo il quale fu invece un suo antenato, reduce dalle guerre napoleoniche, a portare dal Belgio le sementi del radicchio, che fu poi coltivato allo stato brado finché un certo Van Den Borre, verso il 1870, insegnò ai De Pieri il modo di farlo imbiancare d'inverno al calore del letame. I semi furono sempre gelosamente conservati dalla sua famiglia e si racconta che nel 1889, quando la casa s'incendiò, la vecchia nonna che era rimasta bloccata dal fuoco fu trovata dai soccorritori che teneva alto sul letto il sacchetto delle sementi del radicchio (2).
«No xe gnente vero, Van Den Borre non era neppure nominato, una volta», afferma con decisione Anna Cocchetto ved. De Pieri (nata nell'anno 1900). «È solo da un po' di anni a questa parte che si parla di Van Den Borre. Prima si sentivano nominare solo i De Pieri, non il ramo del prete, ma i nostri, detti Fasci, che lavoravano quarantasei campi del conte De Reali, lungo il Terragliolo (3). È stata la suocera di mia suocera a notare alcune piantine diverse dalle altre che crescevano nel suo orto. Ne raccolse i semi, che fece nascere in una "gombinetta", dando inizio così alla coltivazione del radicchio» (4).
Altri, sempre in quel di Dosson, accennano a queste piantine strane, nate attorno agli orti e poi coltivate a parte (5).
Oppure cresciute ai bordi dei fossi, drio e rive alle spalle del giardino di villa Franchetti, finché Van Den Borre, passando mentre andava a caccia col conte, se ne accorse e disse: «Proviamo a metterle al caldo nella stalla e vediamo se cambiano colore» (6).
Qualcuno invece, come Luciano Biscaro (7), accenna ad un frate che avrebbe portato il seme, che fu coltivato per tanto tempo finché intervenne Van Den Borre con la sua tecnica di imbianchimento (8).
Dosson, villa De Reali, villa Franchetti, Van Den Borre: in un modo o nell'altro sono i nomi che ricorrono più spesso quando si chiede ai coltivatori l'origine del radicchio.
Solo una testimonianza non è concorde: quella di Silla Bovo, un pensionato delle FS, il quale ricorda cha da ragazzo frequentava gli Artuso e i Reato, vecchi contadini di Sant'Angelo (dove anche lui abitava, nella stradina del palù). Da loro sentì dire che tutto era iniziato quando qualcuno, un inverno, portò a casa di radicchi di campo, ammassati in un angolo della stalla finché una sera, durante il filò, uno della famiglia avvicinatosi alla carriola tirò fuori dal mucchio un radicchio e, tolte le foglie esterne ormai appassite e guaste, si trovò fra le mani come per incanto un radicchio dal cuore sano e dal bel colore rosso (9)
Cartoline ricordo delle prime due mostre del radicchio rosso di Treviso, 1900 e 1901. Collezione Anselmo Lemesin |
Le voci, le tradizioni e le leggende relative all'origine del radicchio rosso sono a volte affascinanti, ma per forza di cose vaghe e indefinite.
Impossibile è stato anche trovare notizie certe e documentate riguardo alla data precisa della sua origine. Nessun atto di nascita ufficiale, insomma, e neppure un padre certo.
Sulla scorta di documenti d'archivio e testimonianze letterarie, ci si può tuttavia avvicinare con ragionevole precisione al periodo, attorno alla metà del XIX secolo, in cui il radicchio rosso di Treviso iniziò ad affermarsi come rinomato prodotto degli orti e dei campi prossimi alla città.
Per certi versi l'origine del radicchio rosso e la sua rapida diffusione ricordano quella di un altro prodotto agricolo, invero ben più importante: il mais. Di esso si sa che proviene dall'America, e si sa anche che verso gli anni '20 del Seicento era ormai ampiamente diffuso nel Trevigiano visto che era utilizzato per il pagamento del quartese ai parroci, ma non si conosce l'anno preciso e la persona che, intenzionalmente, decise di coltivarlo per primo. Tanto che Agostino Fappani nel suo saggio storico sull'agricoltura trevigiana (1817) si lamentava: «E perché le patrie storie diligenti, (…) non ci tramandarono il nome di quell'uomo benefico, che fece per il primo gialleggiare ne' campi trivigiani il panocchiuto gran-turco, mentre nel silenzio di queste non è dato a noi (…) di offerirgli l'omaggio della nostra riconoscenza?» (10).
Riguardo al radicchio, Aurelio Bianchedi scriveva nel 1961: « (…) Se l'origine del Radicchio rosso di Treviso è tutt'ora avvolta nel buio dell'incertezza, la sua storia diventa chiara a metà del XVI secolo quando, per la prima volta in Italia, l'ortaggio meraviglioso venne sottoposto a coltivazione con forzatura in provincia di Treviso e più esattamente in frazione di Dosson del comune di Casier. Attestazioni attendibili lo documentano» (11). Ma non porta a suffragio della sua asserzione nessuna delle “attestazioni attendibili” che la documenterebbero (12).
Per cercare un'eventuale conferma all'affermazione di Bianchedi, abbiamo consultato il libro di cassa del monastero di San Nicolò di Treviso, che fino alla caduta della Repubblica di Venezia possedeva proprio a Dosson oltre a una boaria, cioè una grossa azienda agricola fatta lavorare in economia da braccianti e salariati, anche altre possession lavorate da fittavoli. Ma fra i vari prodotti, di radicchio rosso non c'è traccia (13).
Non c'è alcun accenno al radicchio rosso neppure nei Discorsi di Pietro Andrea Mattioli, dove invece, fin dall'edizione del 1568 era descritta, con relativo disegno, la nuova pianta del fromento indiano («non turco, per essersi portato dalle Indie Occidentali, et non d'Asia, né di Turchia…») (14).
Del resto, altre erano le specialità gastronomiche per cui era famosa, sempre nel XVI sec. la Marca Trevigiana. Scriveva il medico milanese Ortensio Lando nel 1554: «Goderai a Trivigi Trippe, e Gamberi del Sile; delle quali cose quanto più ne mangi, più ne mangeresti» (15). E anche il medico-letterato trevigiano Bartolomeo Burchelati scriveva, all'inizio del Seicento, che le delizie «molto proprie della nostra terra» erano le « … buone lamprede, migliori gambari e ottime tripe» (16).
Jacopo Agostinetti, nei suoi Cento, e dieci ricordi, che formano il buon fattor di villa (1717), dice al suo fattore di non voler tediarlo, come fanno altri Autori, parlandogli «della coltura della lattuga, aglio, ruccola e persemolo… » e lo invita invece ad introdurre nel suo “qualificato orto” cinque “sorti di frutti”: «… la prima sarà una qualificata persegara, fatta in fili compartiti per l'orto… , seconda una fragolara qual secondo io stimo la introdurrà in vaneze nell'istessi fili della persegara, … perché l'ombra delli persegari non dannifica l'altre piante. Terza una nobilissima sparesara, fatta anch'essa in belissime vaneze, in parte che non vi caschi ombra di sorte alcuna. Quarta una melonara, e quinta dell'uva Grespina» (17). Niente radicchi, quindi, per valorizzare l'orto.
E di radicchi non c'è traccia neppure ne L'accorto fattor di villa, un volumetto ricco di preziosi consigli agronomici «con la descrizione dei dodici Mesi dell'Anno e con la dichiarazione di quanto si deve operar in ciascheduno d'essi Mesi», pubblicato nel 1760 a Venezia (18).
Siamo così arrivati all'Ottocento, e ci vengono in aiuto le risposte (solitamente dettagliate) fornite dai comuni all'amministrazione del Lombardo Veneto nel corso delle operazioni preparatorie del Catasto Austriaco (19). Per il comune censuario di Dosson il questionario, compilato il 24 luglio 1827, alla domanda “Ortaglie, frutteti e simili” registra come risposta un secco: «Niente». Idem per quanto riguarda i comuni confinanti.
Nel comune di Treviso, il documento ci fa conoscere con precisione quali fossero i prodotti di quella che era una delle più importanti ortaglie esistenti in città: l'orto del Gesù, di proprietà comunale (20). Situato nei pressi dell'attuale piazza della Vittoria, 5530 m2 di superficie (più di un campo trevigiano), l'orto del Gesù nel 1826 produceva Bisi (piselli), Fagiuoli, Sparisi (asparagi), Fragole, Seleno (sedano) Erbagi minuti, Radichi, Insalate, Creno (rafano), Brocoli, Pevaroni. I Radichi, evidentemente non ancora i “radicchi di Treviso”, erano equiparati agli “erbagi minuti”, e la loro vendita contribuiva al ricavo complessivo di 64 lire: circa la metà di quanto rendevano i broccoli.
Di quale fosse la considerazione in cui all'epoca erano in generale tenuti i radicchi, abbiamo un paio di testimonianze che, pur riferendosi a località del Trevigiano lontane dall'attuale “zona Doc” del radicchio, sono comunque significative.
Scrive Agostino Fappani nel 1817: «Tendevano ad un medesimo fine le cure, e gli studj dell'altro non men benemerito parroco di Campo di Pietra nel territorio di Oderzo abate Natale Talier, Accademico trevigiano, allorché nel 1790 scriveva della coltura della Cicoria erratica, detta volgarmente Radicchio ad uso di foraggio per alimento ai bestiami…».
La seconda testimonianza è di Jacopo Monico, parroco di San Vito d'Asolo (oggi d'Altivole), letterato e futuro patriarca di Venezia, il quale scrive il 2 luglio 1821 all'amico Antonio Favero, abate di Castelfranco: «Disgrazia grande mi accadde “da piangere a cald'occhi, spron battuti”. Nella mia stia viveano da gran tempo due capponi da buoni fratelli, aspettando ansiosamente il giorno che tu fossi venuto a manicarne i lombi colla tua buona cognata: ma stanchi di tanto aspettare, non so come, pensarono di andarsene ambedue a mangiare il miglio de' campi elisi. La serva li trovò una mattina l'un morto e l'altro spirante, e credo che li abbia creduti strozzati dal Mazzaruolo. Intanto addio capponi, e tu quando verrai, troverai forse appena una tecchia di radicchi pesti; e ben ti starà in pena di tanta pigrizia” (21).
Anche in questo caso i radicchi, se non proprio alimento per il bestiame, erano considerati cibo decisamente ordinario.
Facciamo ora un salto all'inizio degli anni '60 dell'Ottocento, quando sono passati poco più di trent'anni dagli Atti preparatori del Catasto austriaco. Finalmente, dopo tanto cercare fra antiche carte e vecchi libri, compare il Nostro. A pag. 72 de L'Agricolo, almanacco pel 1862, troviamo scritto che, fra i lavori negli orti del mese di dicembre «si rincalzano i cavoli ed i broccoli, s'imbiancano nella terra coperta di foglie secche i radichi bianchi e rossi… ».
Una semplice riga di un modesto almanacco; da qui inizia la storia documentata del radicchio rosso di Treviso.
Tornando ai nostri documenti ufficiali, su indicazione del Ministero dell'agricoltura, industria e commercio del nuovo stato unitario, nel 1870 vengono incaricati i “Comizi Agrari” di effettuare un'inchiesta per conoscere lo stato dell'agricoltura (22). Per il Distretto di Treviso, la risposta fornita dal locale Comizio al quarto dei quesiti ministeriali “Frutticoltura ed Orticoltura”, è la seguente: « … Ciò che forma una buona speculazione sono gli erbaggi coltivati negli orti suburbani; la qualità è così distinta che se ne fa ricerca anche fuori della Provincia, approfittando della facile comunicazione ferroviaria. Nella stagione invernale specialmente si fa un importante commercio del radicchio rosso, il quale ha già acquistato buona rinomanza in tutta Italia per la sua bellezza (che somiglia a un fiore) e pel suo gusto… » (23).
Appare qui per la prima volta quello che diventerà in seguito quasi il logo del radicchio rosso (“somiglia a un fiore”). Da notare inoltre la locuzione “già acquistato”, che lascia supporre come, per gli estensori della nota, la diffusione di questo ortaggio fosse stata rapida e rappresentasse una positiva sorpresa. Non si può infine dimenticare l'accenno che viene fatto alla facilità dei trasporti dovuta al nuovo mezzo ferroviario, che certo deve aver avuto una notevole importanza, fin dall'inizio, nel far conoscere il radicchio anche fuori dalla sua zona di produzione (24).
Dieci anni più tardi Artemio Vettorussi, vice presidente del Comizio Agrario di Asolo partecipa con una monografia al concorso bandito dalla “Giunta per l'inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola” (Inchiesta Jacini) (25). Riferendosi alle Piante ortensi, così scrive: «Una pianta forzata, che per la sua particolare riuscita è veramente ritenuta una cosa scelta, è il radicchio, perché serve di eccellente commestibile nella stagione iemale; pianta che viene coltivata su larga scala nei dintorni della città di Treviso. Quest'erbaggio d'un sapore alcun poco amarognolo, ma altrettanto omogeneo al palato e d'una singolare bellezza per le sue foglie variopinte, è ricercato da chi desidera nutrirsi di sostanze vegetali diuretiche (26). Il grande spaccio che se ne fa non tanto per la città e pei centri popolati dei finitimi distretti, quanto pei paesi lontani col mezzo della ferrovia, ci dà a credere che esista per tal vegetale una lucrosa speculazione…
È dunque mestieri ripetere che il radicchio trevisano (è questo il nome che gli si dà) ha una rinomanza notevole. L'alto prezzo di vendita (dai 40 ai 60 centesimi per chilogrammo) è un dato non vago del vistoso traffico che si va annualmente facendo di questo singolare prodotto degli orti. A Castelfranco Veneto nelle ortaglie si coltivano pure molte piante fra le quali il colza-incappucciato trova nella gente, tanto di città che di campagna, molto favore» (27).
Vettorussi ci fornisce anche, ed è la prima volta, ragguagli sulla tecnica di coltivazione del radicchio (che è ancora limitato agli orti: … «aiuole disposte a colmate») e sulle procedure d'imbianchimento, piuttosto grossolane ed effettuate sul campo (28).
Significativo il fatto che nel 1880 non vi sia ancora alcun accenno al radicchio di Castelfranco Veneto, città che per il momento è famosa solo per il suo “colza incappucciato”.
Pochi anni ancora e il 31 gennaio 1884 su Il contadino troviamo questo articolo:
Il radicchio trevisano all'estero
«Questo Comizio Agrario in seguito alla corrispondenza passata col Signor Commendatore Francesco Cirio (29) e di cui Il Contadino si è altra volta occupato, ha spedito parecchie ceste di radicchio rosso trevisano alle succursali estere della precitata Ditta.
Infatti, oltre che a Roma e a Torino, furono spediti campioni di detto articolo d'ortaglia, tanto reputato, a Francoforte sul Meno, a Vienna, a Colonia, a Monaco, a Praga secondo quanto ci aveva indicato lo stesso Comm. Cirio.
Siamo ora in attesa di avere notizie dal più grande degli esportatori italiani, per sapere se la cosa potrà andare.
Certamente per quest'anno non sarebbe più possibile una commissione ragguardevole di radicchio; ma per un altro anno non disperiamo di ritentare la prova. Il Commendator signor Cirio, uomo intraprendente quant'altri mai, potrebbe forse escogitare modi e mezzi di trasporto per facilitare di molto l'esportazione e arrecare un vero beneficio al nostro Comune, nel cui suburbio con tanta cura e passione si coltivano le ortaglie» (30).
Il radicchio rosso di Treviso ha ormai intrapreso la strada che, sia pure con un percorso non sempre facile, in poco più di un secolo lo porterà a raggiungere il vertice fra i prodotti orticoli invernali.
© Camillo Pavan
Dal libro Raici, Storia, realtà e prospettive del Radicchio Rosso di Treviso